Lettera aperta al Ministro
Gennaro, un vecchio appuntato degli allora agenti di custodia (oggi polizia penitenziaria) quando
dalla finestrella della sezione, attraverso le sbarre, intravedeva il sole splendere alto nel cielo
limpido e azzurro durante una delle tante giornate estive, era solito esclamare, con l’aria di chi la
sa lunga ed esprime una grande verità: “che bella giornata, speriamo che nessuno si impicca !”
La prima volta, non capii bene il significato di quella frase, quasi vi fosse al suo interno una
implicita contraddizione, ma mi bastò poco, per comprendere come la privazione della libertà sia
una cosa così gravosa e terribile, da rendere ancora più acuta e lacerante la separazione dal
mondo esterno, ed anche una cosa semplice e naturale, come è appunto una bella giornata di
sole, può innescare nel detenuto la disperazione più estrema.
Ma a parte queste considerazioni, è indubbio che con l’arrivo della stagione estiva, aumentino
all’interno degli istituti di pena i disagi, la sofferenza ed anche, purtroppo, i suicidi.
Il numero dei ristretti nelle carceri italiane non è mai stato così elevato: si contano oggi quasi
70mila individui, al 95% di sesso maschile, con un numero sempre crescente (che in alcuni istituti
ha raggiunto il 50% delle presenze) di stranieri extracomunitari, ultimi tra gli ultimi, i più disperati
tra i disperati perché spesso privi di qualsiasi riferimento sul territorio.
Molte volte abbiamo scritto, citando Beccaria, Ghandi e tanti altri illustri pensatori, che la civiltà di
un Paese si misura anche dallo stato delle sue carceri: perché, se è vero che la pena ha carattere
affettivo ed è la risposta dello Stato, prevista dalla legge, a chi ha violato le norme della
convivenza civile, è altrettanto vero che la parte affettiva deve esaurirsi con la privazione della
libertà.
Non è infatti accettabile, in un Paese civile e democratico, che coloro i quali scontano una
condanna, o sono addirittura ancora in attesa di giudizio, e quindi, presunti innocenti secondo la
nostra Costituzione, debbano vivere stipati in celle anguste che dovrebbero ospitare la metà di
loro.
Il caldo, la carenza di opportunità lavorative, le lungaggini interminabili della fase processuale, per
tutti quelli che non sono in espiazione di condanna, rendono quella che già di per sé è una
esperienza molto dura, un vero e proprio inferno.
Dall’inizio dell’anno, sono oltre 100 i detenuti che si sono tolti la vita in carcere, segno di un disagio
che troppo spesso diventa disperazione, assoluta e devastante.
Provvedimenti come l’indulto di qualche estate fa, o progetti come il piano carceri attuale che
prevede la costruzione di numerose nuove strutture, da soli purtroppo non sono bastati e non
basteranno a risolvere l’emergenza carceri.
Infatti, il problema riguarda l’intero apparato della giustizia, a partire dalla fase processuale: troppo
lunghi i tempi per l’esaurimento dell’intero iter, articolato su tre gradi di giudizio, troppo poco il
personale in servizio negli uffici giudiziari per far fronte ad una mole sempre crescente di
procedimenti.
L’immagine che ci viene in mente, è quella di vecchio veliero scricchiolante, ove l’acqua che entra
dalle numerose falle che si sono aperte sulla chiglia, è tanta di più di quella che pochi e volenterosi
marinai cercano di ributtare a mare utilizzando dei piccoli secchi: ed il destino di questa nave, se le
cose non cambieranno presto, è quello di affondare.
L’alleggerimento della pressione sulle carceri deve passare non soltanto dalla riduzione dei tempi
processuali, ma anche da una migliore gestione delle condanne esecutive, nel senso di destinare
alla detenzione gli autori dei reati più gravi e di maggior allarme sociale, prevedendo invece per la
delinquenza di minore livello, tutta una serie di percorsi alternativi al carcere tradizionale: la
modulazione delle misure alternative, dell’affidamento, della semilibertà, della detenzione
domiciliare, deve realmente costituire una via alternativa, e non meramente residuale, al carcere
classico, prevedendo l’impiego di questi condannati in lavori di utilità sociale.
All’interno degli istituti, va rafforzata in maniera significativa, attraverso nuove assunzioni, la
presenza del personale, da quello di polizia penitenziaria, a quello tecnico responsabile del
trattamento, quali gli educatori penitenziari per il trattamento intramurale e gli assistenti sociali
per quello extramurale.
I mali che affliggono la giustizia nel suo complesso, dal settore giudiziario a quello penitenziario,
vanno affrontati in maniera globale e sinergica, e non parcellizzata: altrimenti, si corre il rischio di
curare solo qualche sintomo, senza però guarire dal male, oramai cronico.
Ma occorre far presto, perché la misura è colma e le statistiche sulle morti in carcere, ne sono il
terribile segnale: e non vorremmo dover dare ragione, ancora una volta, al buon Gennaro, e dover
pensare che il carcere, che dovrebbe servire anche a risocializzare e a dare una speranza a chi vi è
rinchiuso, sia invece soltanto un girone dell’inferno dantesco, popolato da uomini e donne che
hanno perso ogni speranza, perché questo riporterebbe il nostro Paese indietro di qualche secolo.
Il Coordinatore Nazionale
Paola Saraceni
(347/0662930)
Nessun commento:
Posta un commento