P. Ciardiello – Relazione al Convegno “Detenzione domiciliare e messa alla prova: vera opportunità per un sistema in crisi?”
Seminario di approfondimento sulle misure alternative al carcere dal titolo: ‘detenzione domiciliare e messa alla prova: una reale opportunità per un sistema in crisi?’ organizzato dal gruppo PD alla Camera dei deputati
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Prima di entrare nel merito delle questioni al centro della comune attenzione, reputo opportuna una premessa di tipo metodologico. L'insieme delle considerazioni che mi accingo a condividere con i presenti si svilupperà utilizzando la formula interrogativa molto opportunamente scelta dagli organizzatori. In altri termini, darò per assunti alcuni elementi che costituiscono la premessa e l'orizzonte di senso in cui inscrivere le considerazioni stesse e che riassumerò in forma più che sintetica, a maggior ragione considerando che sono state profusamente richiamate da chi mi ha preceduta.
Primo assunto. L'attuale situazione delle carceri (ma, ineludibilmente, anche quello che si occupa di gestione delle misure alternative alla detenzione) impone interventi indifferibili che consentano in tempi il più possibile rapidi una significativa riduzione della popolazione detenuta e il mantenimento della medesima entro quote compatibili con il rispetto dovuto a ogni persona detenuta, con la concreta capacità del sistema di far fronte ai complessi compiti affidatigli e con le finalità attribuite alla pena dalla nostra Carta fondamentale.
Secondo assunto. Per una pena costituzionalmente orientata, è necessario orientarsi verso la riduzione del numero di comportamenti da qualificare come reati e del numero dei reati da punire con la privazione della libertà, nel solco tracciato da tutte le commissioni per la riforma del Codice penale che nelle ultime legislature si sono pronunciate per la necessità di un'inversione di tendenza rispetto alla progressiva espansione della sfera di incidenza del diritto penale, attestata, per fare riferimento solo al decorso anno, all’emanazione delle L.94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) e 38 (misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori).
Terzo assunto. Qualsiasi intervento, normativo e amministrativo, che si configuri come tappa
di avvicinamento ai traguardi impliciti nei primi due assunti non può che raccogliere il consenso di quanti, per ragioni differenti, abbiano dovuto o voluto sperimentare la diretta implicazione nella declinazione del potere punitivo dello stato, le cui posizioni, da diversi lustri, registrano sostanziale convergenza sui primi due assunti.
Tanto premesso, offrirò il mio contributo al confronto odierno alla luce della possibilità che le misure annunciate possano tener compiutamente conto dei tre assunti che è plausibile considerare come paradigmatici di qualsiasi intervento si ponga l'obiettivo di individuare soluzioni alla crisi ‐ oggi acuita, ma invero non recente ‐ che non abbiano il respiro corto della contingenza e che possano essere considerate prodromiche alle riforme auspicate.
L'art. 1 (Esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a un anno).
Una prima considerazione concerne il previgente art. 47 ter co. 1bis, che non ha obiettivamente inciso sul sovraffollamento.T (La detenzione domiciliare può essere applicata per l'espiazione della pena detentiva inflitta in misura non superiore a due anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, indipendentemente dalle condizioni di cui al comma 1 quando non ricorrono i presupposti per l'affidamento in prova al servizio sociale e sempre che tale misura sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati. La presente disposizione non si applica ai condannati per i reati di cui all'articolo 4bis e a quelli cui sia stata applicata la recidiva prevista dall' articolo 99, quarto comma, del codice penale).
Il primo comma riporta: "la pena detentiva... è eseguita presso l'abitazione del condannato o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza". Risulta evidente che presupposto indispensabile per l'ammissione alla misura sia la disponibilità di "un'abitazione o di altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza". Si tratta di una disponibilità che non è possibile considerare generalizzata e che, pertanto, si prospetta la possibilità che persone astrattamente ammissibili alla misura non possano accedervi per la penuria di risorse abitative o di luoghi di cura, specie nel caso si tratti di stranieri che con più difficoltà riescono a fruire delle già scarse risorse di welfare disponibili. La formulazione del testo risulta assertiva (“la pena detentiva è eseguita”) ed implica, di conseguenza, una applicazione non soggetta a valutazione discrezionale. Allo stesso modo, nel secondo comma, con riferimento al PM che "sospende l'esecuzione dell'ordine di carcerazione e trasmette gli atti al MdS... affinché provveda". Il terzo comma detta disposizioni riferite ai condannati detenuti, precisando che "la direzione dell'istituto penitenziario trasmette al MdS una relazione sulla condotta tenuta durante la detenzione".
Alcune domande che tale formulazione consente di fare:
1. Come sarà possibile rispondere tempestivamente all’aumento delle incombenze del personale pedagogico più direttamente interessato dalla produzione delle relazioni comportamentali considerato che ad una recente interrogazione parlamentare (n. 5‐02550 dell’On. Ferranti e altri) che poneva la questione dell’esiguità di tali figure, uno dei sottosegretari ha asserito l’impossibilità di effettuare altre assunzioni per indisponibilità finanziaria subordinando la soluzione a futuri ed incerti stanziamenti?
Si tenga conto, peraltro, che è stato approvato dalla Commissione Affari Costituzionali del Senato, un emendamento al Ddl n. 1955, volto alla conversione in Legge del D.L. 194‐2009, in cui si stabilisce la riduzione del 10% delle dotazioni organiche della PA, che ovviamente andrà ad investire anche la già esigua pianta organica degli educatori.
2. A quale finalità risponde la previsione che il MdS debba provvedere in presenza della "relazione sulla condotta"?
3. È plausibile ritenere che tale previsione comporti il venir meno della tassatività contemplata dal primo comma dell'articolo con riguardo ai condannati non detenuti e, dunque, la possibilità che il MdS, esercitando il potere discrezionale che gli è proprio, non ammetta il condannato alla misura?
4. In caso di risposta affermativa a tale domanda, è plausibile ritenere che, in presenza di una condotta non regolare (costrutto da sempre oggetto di interpretazioni assai difformi), il MdS sia legittimato a non ammettere il condannato alla misura?
5. Gli estensori del testo hanno tenuto conto della alta probabilità statistica ‐specie in considerazione delle assai critiche condizioni di detenzione nelle carceri sovraffollate ‐ che i condannati incorrano in infrazioni disciplinari suscettibili di influenzare il percorso di mitigazione o trasformazione della condanna detentiva?
6. La relazione comportamentale dovrà, come nel caso della riduzione di pena ex art. 54 O.P., tener conto dei periodi di detenzione espiati presso altre carceri?
7. In caso di risposta affermativa, si è tenuto conto che la raccolta di tali informazioni, spesso non presenti nella cartella personale del condannato, risulta foriera di notevoli appesantimenti dei tempi tecnici, anche in considerazione delle molto critiche condizioni degli Uffici di sorveglianza?
8. Sono sufficienti per distinguere la misura in argomento dalla detenzione domiciliare la competenza del giudice monocratico, la sua minor durata e la procedura semplificata? In altri termini, è applicabile alla misura in argomento quanto sancito dalla Corte di Cassazione nel 2006 ( I sez. sentenza del 13 luglio) che ha affermato che la residualità, nella gerarchia delle misure alternative alla detenzione, della detenzione domiciliare non legittima l'ammissione al beneficio in caso di "immeritevolezza" del condannato?
9. È costituzionalmente compatibile ed efficace, sia nella prospettiva della prevenzione generale che in quella della prevenzione speciale, subordinare una misura volta al reinserimento sociale ‐ specie per condannati a pene modeste per reati non gravi ‐ alla valutazione di una "meritevolezza" definita ed accertata con le modalità indicate?
10. Anticipando più vaste ed organiche misure di decarcerizzazione, tali condannati a pene modeste per reati non gravi (non delinquenti abituali, non destinatari di una precedente detenzione domiciliare che sia stata revocata) non potrebbero essere ammessi all'affidamento in prova ai servizi sociali, misura che consente di dedicarsi ad un'attività di lavoro o di studio e di costruire le premesse di quel reinserimento sociale che è il fine di qualunque pena?
Venendo alle preclusioni contemplate dal comma 5 lettera a), è possibile anticipare che le preclusioni previste per i soggetti condannati per "taluno (quali?) dei reati ex art. 4 bis" comporteranno una riduzione cospicua del numero dei potenziali destinatari? Anche in tali casi evitare tali preclusioni, consentendo l'anticipazione ‐ magari condizionata ‐ del termine della pena, avrebbe consentito di ridurre gli effetti negativi di una detenzione comunque vicina alla sua completa espiazione e di avviare la ripresa delle relazioni sociali e familiari.
La previsione ex lettera c) dello stesso comma 5 che contempla che alla misura non possano essere ammessi i soggetti sottoposti al regime di sorveglianza particolare, implica alcune considerazioni.
a) esiste la possibilità – nel diritto penitenziario vivente assai concreta – che il regime venga applicato anche in presenza di singole condotte turbative dell’ordine e della sicurezza (sanzionabili attraverso le misure disciplinari ordinarie) anziché, come lo stesso legislatore indica attraverso l’uso del plurale, di comportamenti reiterati, dunque NON occasionali e NON episodici. In numerosi istituti del paese, tale regime è applicato in aggiunta al regime disciplinare e non solo ove esso è risultato inefficace;
b) occorre tenere presente che, ai sensi del 4° comma, “in caso di necessità ed urgenza”, la persona detenuta può essere sottoposta al regime in via provvisoria, senza acquisire i “pareri prescritti”; c) la tipizzazione delle condotte legittimanti il ricorso al regime, è, nel caso del 5° comma dell’art. 14 ter, assolutamente indeterminata: vaghi, infatti, sono i riferimenti ai “precedenti comportamenti penitenziari” e agli “altri concreti comportamenti tenuti, indipendentemente dalla natura dell’imputazione, nello stato di libertà”;
d) la formulazione del testo non consente di individuare in modo inequivoco l’arco temporale entro il quale la sottoposizione a tale regime dovrebbe UeventualmenteU essere presa in considerazione per dichiarare l’inammissibilità al beneficio in esame: ad esempio, a quando dovrebbe risalire la sottoposizione a regime di sorveglianza particolare? a 6 mesi, 12 mesi, 18 mesi prima del termine di dodici mesi residui di pena? Nel caso tale esclusione dovesse permanere, occorrerebbe almeno, in chiave di riduzione del danno, circoscrivere il periodo di “regolare condotta” a non oltre un semestre precedente alla scadenza dei dodici mesi residui.
Art. 2. Modifiche all’art. 385 del Codice penale.
Considerata l’opzione deflattiva sottostante alla scelta di introdurre l’esecuzione delle pene presso il domicilio, non si comprende la ratio ispiratrice dell’’inasprimento delle pene previste per l’evasione, in quanto la vigente previsione normativa appare del tutto adeguata a sancire negativamente l’evasione, e non solo attraverso la revoca della misura. Nel testo non sono presenti riferimenti a prescrizioni concernenti la possibilità che il condannato possa fruire di permessi per motivi di salute o personali. È opportuno, a tale riguardo, fare qualche riflessione sui dati statistici che indicano nella detenzione domiciliare concessa a persone provenienti dal carcere la misura alternativa col più alto tasso di revoche per andamento negativo, in ragione della particolare criticità della gestione della relativa condizione e del più alto numero di controlli effettuati dalle FF.OO. (nel 2009, rispetto all’affidamento in prova dalla detenzione: 2,75% di revoche; rispetto alla detenzione domiciliare dalla detenzione: 4,19 di revoche). Considerato che il disegno di legge contempla un forte inasprimento delle pene per l’evasione, è plausibile anticipare che – nel caso non venga effettuato un esame relativo al merito delle circostanze che hanno prodotto l’allontanamento dal domicilio ‐ le eventuali revoche si traducano in un surplus sanzionatorio che produrrebbe effetti contrari alla auspicata deflazione penitenziaria da cui il disegno di legge ha origine?
Articolo 3. Modifiche al c.p. in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova
Essendo plausibile temere che il giudice decida per la sottoposizione dell’imputato alla prova pur in assenza di sufficienti indizi di colpevolezza, si registra l’assenza della formula analoga a quella ora presente nell’art. 444 c.p.p. per la concessione del beneficio quando “non deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento a norma dell’art. 129” espressa nel successivo art. 464 quater.
La sospensione del procedimento con messa alla prova è subordinata alla prestazione del lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 168-quinquies.
L’introduzione del “principio per cui nessun beneficio può essere concesso senza che l’imputato assicuri un ristoro all’offesa rappresentata dalla condotta criminosa” implica un forte cambiamento di prospettiva: immediata conseguenza è che vengono Umodificati anche i presupposti per la concessione dell’affidamento in prova al servizio socialeU (V. successivo art. 6) e la trasformazione del lavoro di pubblica utilità da sanzione sostitutiva (dunque, una vera e propria pena) a obbligo accessorio, addirittura anche nel caso della libertà controllata (che può essere concessa quando il giudice sostituisca la pena detentiva entro sei mesi). Si utilizza, in pratica, una ex pena, sia pure sostitutiva, per attribuire valenza retributiva ad una misura introdotta, non si dimentichi, per Ureati di modesta entità commessi da non recidivi Uche, anche prima dell’introduzione della nuova misura, consentivano agli autori di reato di non entrare in carcere.
La sospensione del procedimento con messa alla prova non può essere concessa più di una volta per delitti della stessa indole e, comunque, più di due volte.
Da questa previsione risulta non chiaro se la seconda concessione possa ammettersi anche nel caso che l’esito della prima prova sia stato negativo.
La sospensione non può, altresì, essere concessa ai soggetti di cui all’articolo 99, quarto comma
(“Se il recidivo commette un altro reato, l'aumento della pena, nel caso preveduto dalla prima parte di questo articolo, puo' essere fino alla meta' e, nei casi preveduti dai numeri 1) e 2) del primo capoverso, puo' essere fino a due terzi; nel caso preveduto dal numero 3) dello stesso capoverso puo' essere da un terzo ai due terzi”), che abbiano riportato condanne per delitti della stessa indole rispetto a quello per cui si procede.
La previsione che il surplus sanzionatorio introdotto dalla L. 215 del 2005 che ha modificato l'istituto della recidiva operi anche rispetto alla nuova misura della messa alla prova comporterà verosimilmente ‐ al di là di qualunque considerazione sul venir meno della possibilità di individualizzare la sanzione e sulla sostanziale equiparazione, quanto a fruibilità di misure alternative alla detenzione, dei recidivi reiterati ai detenuti per gravi delitti associativi et similiaT
Articolo 168-quinquies. - (Lavoro di pubblica utilità)
Il lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, per un periodo non inferiore a dieci giorni né superiore a due anni.
L’attività viene svolta nell’ambito del comune dove il condannato ha la residenza o il domicilio o, ove non sia possibile, presso la provincia, e comporta la prestazione di non meno di quattro e non più di dodici ore settimanali, da svolgersi con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato.
La durata giornaliera della prestazione non può comunque superare le quattro ore.
L’applicazione del lavoro di pubblica utilità è subordinata al consenso dell’imputato.
La mancanza del consenso rende inapplicabili gli istituti la cui concessione è subordinata alla prestazione del lavoro di pubblica utilità.
La previsione in argomento presuppone una vasta disponibilità di opportunità allestite da stato, regioni ed enti locali che non è possibile dare per scontata, con possibili ripercussioni per la concreta fruibilità della misura, con particolare riferimento agli stranieri. Inoltre, occorre considerare che Urecenti disposizioni dell’amministrazione penitenziaria impongono agli assistenti sociali di impegnarsi esclusivamente nelle attività di aiutocontrollo nei confronti degli affidati, lasciando ai margini tutte le attività da svolgere nelle comunità locali Uper sollecitare le istituzioni all’inclusione delle persone in esecuzione penale nelle politiche concernenti le misure di welfare, in consonanza, peraltro, con le “Linee guida per l’inclusione sociale” di recente aggiornate dalla apposita Commissione attiva presso il Dipartimento stesso.
La questione della libera formazione del consenso non si pone, considerata la qualità delle alternative disponibili, ovvero l’inapplicabilità dell’istituto. È opportuno osservare che l’obbligo a riparare che consegue all’introduzione di tale previsione risulta antinomico rispetto a tutte le indicazioni internazionali in materia di giustizia riparativa, comprese le Regole penitenziarie europee.
Art. 4. Modifiche al codice di procedura penale
Articolo 464-quater (Provvedimenti del giudice ed effetti della pronuncia) Il giudice, se ritiene corretta la qualificazione giuridica del fatto e non deve pronunciare sentenza di proscioglimento ai sensi dell’articolo 129 dispone con ordinanza la sospensione del procedimento con messa alla prova quando ritiene che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati.
Sulla scorta di quali elementi il giudice sarà chiamato a fare le sue valutazioni in materia? Su cosa fonderà il proprio convincimento, in assenza della previsione che, nel settore minorile, contempla che il giudice possa richiedere un’indagine socio familiare anche nella fase di cognizione?
Occorre tenere conto che gli attuali organici del personale di servizio sociale sono assolutamente inadeguati a sostenere qualsiasi incremento dei carichi di lavoro, il che rischia, oltretutto, di tradursi in un danno per l’imputato. Inoltre, si tenga presente che nella nota trasmessa il 20 aprile 2010 dal Dipartimento per la Giustizia Minorile al Sottosegretario alla Giustizia Caliendo si rileva (pag. 5) che “la quasi totalità delle messe alla prova viene concessa a seguito di un progetto elaborato … e gestito in sinergia dai diversi servizi coinvolti…”.
Articolo 464-quinquies (Obblighi e prescrizioni). L’ordinanza che dispone la sospensione del procedimento con messa alla prova contiene le prescrizioni che il soggetto dovrà seguire in ordine ai suoi rapporti con il servizio sociale, alla dimora, alla libertà di locomozione, al divieto di frequentare determinati locali e al lavoro.
Nell’ordinanza viene altresì stabilito che l’affidato si adoperi in quanto possibile in favore della vittima del reato, tramite risarcimento del danno, restituzioni o attività riparatorie.
Sarà indispensabile chiarire se le attività riparatorie dovranno aggiungersi al lavoro di pubblica utilità o le compendieranno, in vista della necessità di non ostacolare il processo di reinserimento sociale che, secondo il costante pronunciamento della Corte costituzionale, deve rimanere il fine principale di qualunque pena.
Articolo 6. (Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354 e al DPR 30 giugno 2000, n. 230)
1. All’articolo 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354, sono apportate le seguenti modificazioni: a) dopo il quinto comma è aggiunto il seguente:
“5-bis. L’affidamento in prova al servizio sociale è subordinato alla prestazione di lavoro di pubblica utilità ai sensi dell’articolo 168-quinquies del codice penale e non può essere concesso qualora il condannato non vi consenta”.
Riprendendo il ragionamento introdotto in precedenza – v. commento al primo comma dell’art. 3 che modifica l’art. 168 del c.p. introducendo l’art. 168 bis ‐, con questa modifica dell’ordinamento penitenziario si rende obbligatorio il lavoro di pubblica utilità alterandone l’originaria fisionomia di pena sostitutiva; inoltre, in assenza di espressa abrogazione del co. 7 dell’art. 47 O.P., si aggiunge il lavoro di pubblica utilità alla citata prescrizione ex co. 7 art. 47 che contempla, come noto, l’adoperarsi, in quanto possibile, in favore della vittima del reato:
come saranno contemperati i due istituti? Da chi? Da una parte l’obbligo accessorio del lavoro di pubblica utilità, dall’altro la previsione dell’adoperarsi in favore della vittima, nella prassi spesso sostituito con attività di “volontariato” e “riparative” coatte: è legittimo chiedersi quale fisionomia assumerà l’affidamento, quale il suo carico afflittivo e quale potrà diventarne la concreta declinazione, anche alla luce dei pronunciamenti della Corte di Cassazione circa l’illegittimità del subordinare l’obbligo costituzionale di “fare trattamento” e rieducare il reo (obiettivo centrale della misura) all’attuazione del ristoro anche simbolico del danno da reato.
In tale contesto, la locuzione “non può essere concesso qualora il condannato non vi consenta” si configura come richiamo improprio ad una consensualità che, in assenza di alternative, non può risultare liberamente formato ed espresso, secondo quanto esplicitato, si ribadisce, da tutte le raccomandazioni internazionali in materia.
A conclusione delle considerazioni di natura prevalentemente tecnica presentate, vorrei tornare ai tre assunti esposti nell’introduzione.
Potranno le misure annunciate indurre una significativa riduzione del sovraffollamento (col contestuale ripristino delle condizioni minime per assicurare il rispetto dei diritti delle persone detenute e del personale) e configurarsi come una prima significativa iniziativa nella direzione della riduzione del ricorso alla pena detentiva che costituisce il leit motiv di tutti i ragionamenti sulle riforme della giustizia possibili?
Nel loro libro appena pubblicato, “In attesa di giustizia”, Carlo Nordio e Giuliano Pisapia, già presidenti di due Commissioni per la riforma del codice penale volute da altrettante quanto differenti maggioranze parlamentari, condividono in buona parte le analisi delle gravi criticità del sistema, sintetizzabili con le parole di Nordio: “In un’ottica di riforme le pene… non devono essere aumentate, semmai diminuite. Il primo passo, abbandonando lo stillicidio di leggine fatte à petits paquets, estemporanee e confliggenti tra loro, è limitare davvero le condotte penalmente rilevanti ai fatti realmente gravi e punire con adeguate sanzioni amministrative quelle condotte illecite che non creano danni … una scelta che richiede coraggio, perché l’impulso della politica è di assecondare le istanze di sicurezza”.
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